Al giornale della società Mihajlovic si è invece raccontato seriamente. Il lungo autoesilio dal paese natale, dove è tornato di recente: “Nel 1991 mi fece una brutta impressione, appena dopo la guerra. Non ci volevo più tornare: troppo dolore. Ultimamente mi è successo di sognarlo com’era prima e mi è venuta voglia di rivederlo. Ai miei occhi è diventato tutto molto più piccolo”. Il primo pallone vero, regalato dal padre. “Di pelle. Sull’asfalto si rovinava, facevo due chilometri a piedi per il campo di calcio. Con quel pallone ci dormivo”. L’esordio con la nazionale giovanile. “Le scarpe me le prestò un amico: da rugby, con sette tacchetti”. La povertà. “Per uscire da un posto così, devi avere fame per forza. Mi compravano una banana, da dividere con mio fratello. Dissi a mia madre: quando divento ricco, mi compro un camion di banane e me lo mangio tutto da solo”.
La psicologia. “Tutti sappiamo allenare, nessuno inventa l’acqua calda. La cosa fondamentale è come entrare nella testa dei calciatori: alcuni sono più sensibili di altri, come i figli”. Lo stress. “Ho lasciato la panchina della Serbia perché mi mancavano quotidianità e stress. Qui invece non è mai piatto, ma mi sta bene così”. L’autonomia, infine. “Mi piace ascoltare e discutere con tutti. Però alla fine decido io, preferisco sbagliare con la mia testa. Se sono convinto di una cosa, non cambio idea”. Se n’è accorto Berlusconi, persuasore per nulla occulto. Così è fatto Mihajlovic, masochista ottimista. “Il 2016 può essere l’anno del Milan”.
milan ac
- Protagonisti:
- sinisa Mihajlovic
Fonte: Repubblica