ALTRI SPORT & VARIE

La faccia tosta di Insigne: “Il pallone è il mio vizio, la strada la mia scuola”

Insigne, ecco il Real Madrid…
“Sappiamo che è una grande squadra, davanti hanno Cristiano Ronaldo: il miglior giocatore del mondo insieme a Messi. Il mister ci ha detto di stare sereni, che resta comunque una partita di calcio. Magari riusciamo a tornare a casa con un buon risultato per giocarci la qualificazione al San Paolo, che di sicuro è uno stadio che può incutere timore perfino al Real”.

L’arma migliore del Napoli?
“Il gruppo che ha creato il mister, con lui nessuno si sente escluso. Ci fa sentire tutti importanti. Tutti sanno che prima o poi arriva la loro occasione, e quando arriva ognuno sa quello che deve fare”.

Lei è l’unico napoletano della rosa oltre al terzo portiere.
“Sì e il fatto di esserlo aumenta la pressione, si aspettano sempre di più da me. Lo stesso succede a Totti, Florenzi e De Rossi alla Roma”.

Sarri diceva che lei ha la “faccia di culo” sufficiente per sopportare la pressione.
“Non è che succeda chissà che, cerco di non pensarci, perché altrimenti non riesco a giocare liberamente. Io quando scendo in campo penso solo a divertirmi e a vincere”.

Sarri le ha dato più libertà sul campo rispetto a Benítez?
“Devo ringraziare Benítez, perché è con lui che ho imparato l’importanza della fase difensiva. Prima mi preoccupavo solo della fase offensiva. Mi ha aiutato molto a crescere in entrambi gli aspetti. Nel calcio di oggi, e ancora di più in Europa, i giocatori devono essere bravi sia in attacco che in difesa”.

La rimproverano perché dribbla troppo o eccede in virtuosismi?
“No. Sarri dà libertà totale a me, Callejón e Mertens negli ultimi trenta metri. Ci chiede semplicemente di stare attenti nei ripiegamenti, perché per vincere le partire prima di tutto non devi prendere gol”.

Com’era invece lavorare con Zeman?
“Ti divertivi come un matto, per lui esisteva solo la fase offensiva. Tu preoccupati solo di attaccare, mi diceva”.

Cosa le ha insegnato?
“A vivere lontano da casa. Quando andai con lui al Foggia era la prima volta che stavo via da casa. All’inizio mi pesava perché non ero mai vissuto da solo, di sera soffrivo. Tutti quelli che non conoscono Zeman dicono che è troppo serio e che non ride mai. Tutto il contrario, stava sempre a scherzare. E poi ci sfidava: la prima settimana, che era solo una corsa continua, ci premiava con un caffè se la facevamo; il più rapido nello sprint poteva prendersi una coca cola o una fanta. Ci faceva sentire bene. Se sono arrivato fino a qui è per Zeman, per la fiducia che mi ha dato e perché mi sono fatto conoscere da lui. Ho ricambiato la fiducia con i gol: 18 il primo anno al Foggia, 20 al Pescara, con Immobile e Verratti. Ma gli allenamenti erano molto pesanti”.

Lo dicono tutti. Alla Rocky Balboa, come raccontano alcuni?
“Al Foggia ci faceva salire le scale dello stadio con dei sacchi in spalla. Al Pescara ci abbonava i sacchi. Però poi, quando arrivava la domenica e vedevi che correvi il doppio dei tuoi avversari smettevamo di lamentarci”.

Che consigli le dava?
“Di giocare come se fossi in strada e di divertirmi. Tattica con lui, zero… Ci preoccupavamo solo di attaccare”.

Un buon consiglio…
“È quello che ci dice Sarri, di divertirci, perché se non ti diverti, mentalmente è sfiancante”.

Che cosa serve a un calciatore per arrivare in alto?
“Spersi sacrificare. Io ho rinunciato a tante cose, a uscire il sabato sera, a fare tardi con gli amici. Andavo a letto alle 20 quando avevo la partita il giorno seguente. Un giorno mi dimenticai di cambiare l’ora della sveglia e arrivai a partita già iniziata. Mi veniva da piangere. Però sono entrato nel secondo tempo che stavamo perdendo e abbiamo vinto. Bisogna sacrificarsi molto a Napoli, ci sono tanti giocatori di talento che non arrivano in cima perché non hanno la capacità di dire no a tante cose. Io devo molto ai miei genitori in questo senso, perché a 17-18 anni il coprifuoco era alle 22.30, mentre i miei amici tornavano all’una. Sono cresciuto in un quartiere operaio, con un ambiente particolare, casini dalla mattina alla sera. I miei genitori mi hanno aiutato molto, gli sarò sempre grato per questo.

Che cosa serve per restare in alto?
“Professionalità e serietà. A me per esempio piace arrivare al campo sempre un’ora prima agli allenamenti”.

Che cosa la diverte del calcio?
“Tutto. Soffro quando dopo le partite ci toccano le sedute di alleggerimento. Se fosse per me, mi allenerei tutti i giorni con il pallone. Mi mettono a correre senza la palla e divento pazzo. Dove sto io dev’esserci un pallone, è il vizio che ho fin da piccolo”.  

A proposito, da bambino collezionava figurine?
“No, io pensavo solo a giocare”.
 
A chi avrebbe chiesto un autografo?
“Ad Alessandro Del Piero, per il suo modo di giocare, per come tirava le punizioni, per la sua professionalità e perché non discuteva mai con nessuno, né dentro né fuori del campo”.
 
Il regalo più bello che ha ricevuto quando era piccolo?
“Gli scarpini di Ronaldo, il fenomeno. Mio padre lavorava al Nord e tornava a casa ogni due settimane, e portava me e i miei tre fratelli a comprare scarpini da calcio. Io lo facevo girare a piedi per tutta la città finché non trovavamo quelli di Ronaldo… Mio padre ha fatto molti sacrifici per noi”.

Che cos’è invece che faceva saltare i nervi a sua madre?
“Il fatto che quando papà era fuori per lavoro non la stavamo a sentire. Io e i miei fratelli passavamo la giornata per strada a giocare a calcio e quando arrivava la seria doveva uscire a cercarci, perché nessuno voleva tornare a casa. Non la aiutavamo mai in nulla”.
 
In via Rossini, dov’è nato e cresciuto, la ricordano come il “rompiscatole” dell’isolato.
“Sì, perché dove vivevo c’era un muro gigantesco e io passavo il giorno a palleggiare contro la parete, dalle 7 del mattino fino a quando mia madre mi chiamava. Si lamentavano tutti del rumore, però a qualcosa mi è servito, direi… E non ho mai rotto nulla”.
 
Non andava a scuola?
“Non mi piaceva molto la scuola. A volte tornavo a casa e dicevo a mia madre: oggi ci siamo messi d’accordo e abbiamo marinato la scuola per poter giocare a calcio”.
 
Per questo poi aiutava suo padre al mercatino?
“Aiutavo mio cugino. Arrivò un momento in cui mio padre mi disse: se non vuoi andare a scuola, mettiti a lavorare, in casa tutto il giorno senza fare nulla non ci puoi stare. Andavo con mio cugino che aveva un posto al mercato e lavoravo per lui per 50 euro la settimana. Mi alzavo alle sei del mattino e la sera andavo ad allenarmi: erano giornate interminabili, morivo di freddo e in primavere le allergie al polline mi uccidevano. A volte ero talmente stanco che mi addormentavo nello spogliatoio e veniva l’allenatore a svegliarmi. Il giorno che firmai il primo contratto con le giovanili del Napoli lasciai il mercatino”.
 
La strada è stata la sua scuola?
“Sì, è lì che ho cominciato. Giocavo molto per la strada, finché il padre di un amico che stava mettendo su una scuola calcio venne nel quartiere e ci chiese se ci andava di iscriverci. Si iscrisse mio fratello, che ha tre anni più di me. Un giorno andai a vederlo e dissi che pure io volevo giocare. Mi dissero di no, che ero troppo bassino. Cosa??? Io voglio giocare. Scesi in campo e non ne uscii più”.
 
È vero che le dicevano: “Ma dove vai, se il pallone è più grande di te”?
“Sì. Feci provini con il Torino, con l’Inter, e tutti mi rifiutavano. Non facevo altro che sentire: “È bravo, però è bassino”. Volevo mollare, mi era passata la voglia. A che serve, mi dicevo, è inutile: in tutti i posti in cui vado mi dicono che sono basso e non posso giocare a calcio [ora è alto 1,63, ndr]. Al Napoli invece mi presero. Fu la mia fortuna”.
 
E perché non volevano i bassini?
“Al Nord prima funzionava così, preferivano i ragazzini alti, anche se non sapevano palleggiare”.
 
Che cosa ha imparato in strada?
“A non arrendermi mai, e a trasmettere tutta la grinta e la felicità che sento quando scendo in campo. Succedeva raramente, però non volevo perdere, perché quando perdevo mi passava l’appetito, mi arrabbiavo e piangevo”.
 
La sua prima scuola calcio fu l’Olimpia Sant’Arpino. Le abbonarono la quota quando suo padre perse il lavoro.
“Sì, avevo 8 anni. Sapevano che mio padre non poteva pagare le quote mie e di mio fratello e il presidente ce le abbuonava. Diceva che le compensavamo con il talento. Eravamo bravi. Ci regalavano pure la divisa, non potevamo pagarla e uscivamo con i vestiti che avevamo in casa. Ora il presidente gestisce una scuola calcio con mio fratello”.
 
Immagino che questo le abbia insegnato il valore del denaro.
“Molto, perché so tutte le difficoltà che ha passato la mia famiglia. Mi concedo qualche capriccio, come orologi, vestiti, macchine: però non butto via i soldi”.
 
Perché vuole che suo padre la accompagni tutti i giorni agli allenamenti?
“A lui piace, e a me piace averlo vicino, e visto che non lavora… Quando firmai il primo contratto con il Napoli mi pagavano 1.500 euro al mese e dissi a mio padre che era inutile che continuasse a lavorare. Se prima, con 300 euro al mese, mangiavamo in sei, con 1.500 ancora meglio. Non volevo che continuasse a lavorare. E poi mia madre è più tranquilla sapendo che mi porta mio padre”.
 
Qual è il difensore che le ha dato più calci?
“Sono due: Chiellini e Barzagli, ma è il loro lavoro”.
 
Quanti tatuaggi ha?
“Ho perso il conto. Ma adesso basta, mia moglie mi ha detto che se me ne faccio un altro non mi fa più entrare in casa”.
 
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© El País  / LENA, Leading European Newspaper Alliance

Interviste sport

ssc napoli
Protagonisti:
lorenzo insigne

Fonte: Repubblica

Commenti
Segui il canale PianetAzzurro.it su WhatsApp, clicca qui