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Tavecchio e Ventura, la poltrona più della dignità

ROMA – Il presidente e il commissario tecnico, ufficialmente, ancora non si sono dimessi. Non che sia poi così fondamentale e soprattutto risolutivo avere subito la testa di Carlo Tavecchio e Giampiero Ventura immediatamente dopo la notte buia di San Siro: 13 novembre 2017. Data che passerà alla storia come quel19 luglio 1966, la sera della famigerata Corea del Nord. Anzi, se è per questo allora a un Mondiale c’eravamo arrivati, oggi al Mondiale non ci hanno fatto nemmeno mettere piede. 

Tre anni e mezzo fa, in Brasile, e durante i Mondiali, Prandelli e Abete si dimisero molto più dignitosamente all’unisono mezzora dopo aver perso con l’Uruguay: e le cose non sono affatto cambiate, anzi sono pure parecchio peggiorate. Per cui in assoluto le dimissioni e l’azzeramento non risolvono, ma almeno salvano la faccia, rendono un po’ più dignitosa la sconfitta e possono essere almeno un punto di partenza. A patto sempre che si prenda la strada giusta: noi ad esempio abbiamo preso clamorosamente quella sbagliata. Anche perché il sistema calcio è fatto apposta per autorigenerarsi e creare più o meno gli stessi mostri di prima. Un po’ come The Blob, la massa nera che più la tagli con l’ascia e più si ricrea e moltiplica, e invade, e ingloba tutto.

Ci interessa sottolineare adesso il paradosso di una generazione di campioni del mondo che subito dopo esser stati eliminati dalla Svezia ha dato ufficialmente l’addio all’azzurro, perché la loro parabola era ormai inevitabilmente compiuta. Buffon, Barzagli, De Rossi (e in parte anche Chiellini) lo hanno fatto con grande emozione, a caldo, a testimonianza che i calciatori saranno pure delle star bizzose e a volte dei mercenari (ma non certo quelli che abbiamo citato) però alla fine il pallone ti strappa il cuore, e i soldi al momento del gol c’entrano poco o nulla. E’ reggere lo sguardo della gente che ti interessa. I calciatori, simpatici o antipatici, della nostra squadra o di un’altra che non sopportiamo, questo, vivaddio, sanno ancora farlo. I dirigenti invece ancora no.

Ci interessa sottolineare il fatto che Tavecchio e Ventura siano ancora lì, proprio perché alla fine, purtroppo, non c’è una dignità da salvare e uno sport da ricostruire con metodi esattamente agli antipodi degli attuali, ma c’è sempre l’interesse personale da salvare, la poltrona da difendere o politicamente da mediare, l’inciucio da studiare, e il milioncino o due di buonuscita da trattare. 

Il calcio è sport, ma alla fine, visto dalla parte di chi lo manovra, non è molto lontano dalla politica. Anzi direi quasi che è la stessa cosa. Il navigatissimo socialista Rino Formica regalò un giorno ai libri una frase che passò alla storia della prima Repubblica: “La politica è sangue e merda”. Ecco c’è un pezzo di calcio italiano che non è poi molto differente.

fonte: Repubblica.it

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