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Juventus e cinema: quando Buffon era Walter Chiari

ROMA – Il Buffon di allora disse: “Io venire a giocare con voi? Ma dico, scherzate o cosa? A me la Roma è simpatica ma se rinnovo il contratto con la Juventus l’avvocato ha promesso che mi regalerà un millequattro!”. Il tutto in una specie di gramelot che mescolava volutamente senza controllo bergamasco e veronese. Quelli della Roma rimasero di sasso, il mediatore aveva garantito che il mitico Brandoletti, il Buffon di allora, sarebbe stato pronto a cambiare maglia e per dimostrare la sua buona fede aveva deciso di accompagnare l’assistito all’incontro decisivo. Ma la verità era un’altra. Anche lui avrebbe fatto confusione. Il Buffon di allora era Walter Chiari, si chiamava Brandoletti e a quanto raccontano era il portiere più forte d’Italia. Ma soltanto per un’ora e mezza, soltanto in bianco e nero e con una giacca altrettanto bianca e nera, e soprattutto soltanto sul set. Brandoletti viveva dentro un film, era solo un Buffon immaginario. Non solo. Aveva anche un fratello gemello, imbambolato e mai incontrato, che ad un certo punto accetta di vestire i suoi panni perché attraverso la più classica delle truffe intravede la concreta possibilità di mettere le mani su un gruzzolo mai visto né toccato prima.

Alla fine il finto Brandoletti, che nel frattempo ingerisce le pasticche di uno psichiatra pazzo (Aroldo Tieri) che lo avrebbero presto trasformato in un orango, firma per la Roma, scende in campo e muovendosi come un posseduto, totalmente incapace, subisce le reti più assurde (si vede una Juventus-Roma del ’49 mentre le scene ricostruite saranno girate allo Stadio Flaminio). Il faccendiere, artefice del raggiro, era Carlo Campanini, il film, delizioso, si chiamava e si chiama tuttora “L’inafferrabile 12”. Parla di Brandoletti e dei suoi fratelli, parla di quando il calcio, pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, era qualcosa sulla quale si poteva planare senza il rischio di danneggiare una o più parti del corpo della nazione, e di cui si poteva ancora raccontare senza storcere il naso, o tapparselo, ma al contrario era qualcosa da tenersi stretto, come una dolcezza ritrovata.

Il film, in cui Silvana Pampanini recita un ruolo in cui forse per la prima e unica volta prende in giro se stessa, fu sceneggiato da Steno e Monicelli, che si divertirono un mondo a descrivere, con i toni della commedia, tutti teneri (soltanto qualcuno un po’ più aspro) il mondo del pallone che rifioriva dalle macerie di un paese che non aveva soltanto bisogno dei quattrini del Piano Marshall ma anche di un po’ di sole. Pare che Steno e Monicelli dovessero anche dirigerlo ma poi per più di un motivo, fra cui gli impegni per altri progetti, tipo “Guardie e ladri”, la regia fu affidata al sempre affidabile Mario Mattoli. Nella loro “spiega” dei meandri del calcio Steno e Monicelli, lucidi come non mai, infilarono anche un tema evidentemente già caldo: le partite truccate cui il finto Brandoletti avrebbe dovuto contribuire con la propria insipienza. Appaiono, come spesso capitava negli anni Cinquanta, i giocatori veri, quelli della Juventus, come Boniperti, i due Hansen, Parola, Piccinini, Bizzotto, Praest.

E alla luce di quel che sarebbe accaduto nel mondo reale Brandoletti fece bene a non credere nella chimera giallorossa e ai tanti soldi promessi dall’inghippo di Campanini (erano gli anni d’oro della parodia dei Fratelli De Rege): qualche mese dopo l’uscita del film la Roma andò a Torino e perse 7-2 (allora il portiere bianconero era Viola) ma soprattutto, continuando a mescolare realtà e finzione, precipitò in B. L’attenzione per la Juventus campione d’Italia nel ’50 che traboccava dall'”Inafferrabile 12″ aveva anche un’altra origine, oltre al chiaro tentativo di creare una sponda nuova per Cinecittà, letteralmente invasa da attori, sceneggiatori e registi “giallorossi”.  Quel film, davvero una piccola gemma di comicità ritmica, fu l’unica pellicola finanziata direttamente da una famiglia che col calcio aveva già stabilito un rapporto confidenziale: gli Agnelli. Dietro la sigla “ICS”, Industrie Cinematografiche Sociali, e dietro il nome del produttore ufficiale, Nicolò Theodoli, si celava proprio la famiglia dell’avvocato. Quello con la erre moscia che aveva promesso a Buffon, anzi no a Brandoletti, il millequattro.
 

Fonte: Repubblica.it

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