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Basta col bullismo da spogliatoio

ROMA – Non è successo niente, o quasi. Una giornata di squalifica a Bacca, e un’ammonizione con diffida a Galliani, per aver insultato quelli della Juve. Il finale al veleno di Juve-Milan è un fatto minimale evidentemente per il giudice sportivo, un buffetto, un fatto quasi inesistente. La giustizia sportiva è quasi sempre materna, severa ma fino un certo punto. E invece lì, in quei minuti finali, è transitato quasi tutto il nostro calcio, con tutti i suoi vizi e la sua maleducazione di oggi.  Accettare il risultato. Il problema è di una banalità disarmante. L’accettazione del risultato è il cardine dello sport e anche del calcio ovviamente. Si può non essere d’accordo, si possono contestare i rigori dati o non dati, tutte le decisioni giuste o sbagliate dell’arbitro, ma alla fine bisogna accettare il risultato. Quello che ovunque traducono con un semplice e diretto “ci devi stare”. Il rigore di Juve-Milan ha fatto discutere il mondo, ci siamo divisi e spaccati più o meno in parti uguali pur avendo rivisto l’episodio centinaia di volte alla moviola – e già questo dovrebbe dirci della difficoltà di giudicare. Ma il caso è sintomatico e perverso, una perfetta fotografia dello status del calcio italiano. 

Non accettare il risultato significa uscire da un campo di calcio ed sfidarsi sulla strada. Cioè senza alcuna regola. Perché per un Montella che mostra comprensione c’è un Galliani, vecchio vizietto, che scende in campo come lo sceicco del Kuwait a Spagna ’82 o lui stesso a Marsiglia nel ’91, uno cui, per inciso, piacerebbe anche tornare a fare il presidedente della Lega di A (pensa un  po’…), e un Bacca già sostituito e riemerso dallo spogliatoio che va a insultare l’arbitro viso a viso. E per concludere un Milan che addirittura sfascia uno spogliaoio. Una squadra di dimensione internazionale degradata a squadra di borgata. Non risulta che il Paris Saint Germain, sia pure all’interno di un clamoroso 1-6, ma eliminato pur sempre dalla Champions League per un rigore fasullo e per un paio che non gli sono stati fischiati, abbia fatto altrettanto.

Protestare si può, il calcio non sarà mai una partita di bridge. Quella che è sproporzionata è la dimensione, una protesta quasi di piazza. Quello che non è chiaro è che un arbitro non è giudice penale che ti condanna ingiustamente a 20 anni o assolve un criminale, è un tecnico di cui non si può fare a meno e che deve decidere all’istante, un vigile urbano che dirige il traffico all’incrocio e che ferma o fa passare quelle macchine nell’interesse di tutti. Quello che è chiaro è che si è tollerato fin troppo un rapporto di sottomissione dell’arbitro ai giocatori, si è tollerato che a ogni fischio venga circondato e pressato da chiunque (e lo fanno tutti, ma proprio tutti anche gli juventini). Tutti si lamentano degli arbitri di questi anni, ma la realtà è che servirebbero dieci Lo Bello di cinquant’anni fa. Zitti e mosca, così meriterebbero di essere trattati certi calciatori che abusano della propria immagine e popolarità.

Quanto successo a Torino è stato gravissimo. Non è la prima volta che accade che una squadra devasti uno spogliatoio, ma proprio questo significa che il calcio, e in particolare il nostro calcio, è rimasto o meglio sta regredendo addirittura a un livello primitivo. Non uno sport ma uno scontro di bande da strada, il bullismo che entra dappertutto, anche lì dove le regole sono sacrosante, e non solo vanno rispettate, ma è un dovere accettarle. Come e perché sia successo non è facile dirlo, viviamo in tempi di aggressività diffusa, di iperprotagonismo, di intolleranza, di giustizia fai da te,  ma è anche troppo facile e assurdo scaricare tutto sui social che accumulano tensioni e inselvatichiscono l’ambiente.  I social non fanno altro che riflettere noi stessi.

Molto più semplicemente l’impunità e un mancato senso dell’istituzione deformano l’ego dei protagonisti rendendoli peggiori. Ognuno si sente giocatore ma anche arbitro, allenatore, presidente, dirigente, tifoso, giudice e tavolta persino teppista e vendicatore. Dietro tutti questi fatti ci sono persone e responsabilità precise e nessuno può addurre scusanti. Siamo in un mondo di grande ipocrisia. Tutti nel calcio sono perseguitati e nessuno è persecutore, tutti nel calcio si lamentano dei torti e incassano silenziosi i favori.

Prima l’Inter, poi il Milan. Le milanesi contro Torino, la Juve che avanza col vento arbitrale in poppa. Ecco l’accusa, il veleno di chi non ci sta. Le proteste in questo caso tendono a delegittimare quando ottenuto e vinto dalla Juventus oggi e in tutti questi anni. Ma cinque scudetti consecutivi non possono essere messi in discussione così. La Juventus è giusto che abbia pagato un prezzo caro per un passato sbagliato e colpevole e non le dovrebbe essere permesso, se proprio vogliamo, di provocare il mondo inserendo ovunque in albi d’oro e insegne da lei stessa esposti due scudetti che le sono stati tolti dalla giustizia sportiva – e se ci fosse una Federcalcio degna di questo nome non succederebbe – , ma tutto questo non c’entra niente col passato. Gli ultimi scudetti che la Juve ha vinto sono legittimi e corretti, la supremazia attuale conquistata lavorando meglio di altri che hanno avuto dal 2006 le stesse identiche possibilità. A cominciare dal Milan di Berlusconi e Galliani che ha lavorato molto peggio, e che quando gli errori sono stati a vantaggio ha incassato ipocritamente il favore, mica ha restituito i punti o ammesso il calcio nel sedere. Si tratta solo, dunque, di accettare il risultato. Con le buone, se si è sportivi, altrimenti con le cattive.

Fonte: Repubblica

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