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Da Maradona a Cruijff, quando le bandiere diventano scomode

“Tornare? Magari, ma loro mi ritengono un problema”. Storia di bandiere scomode. Paolo Maldini non si è mai nascosto dietro un dito. Sarebbe voluto tornare al Milan da dirigente, o con qualche altra mansione. Ancora pensa con disperata nostalgia, il recordman di presenze in serie A (647), a quello che avrebbe potuto fare e dare. Ma è la nostalgia più canaglia che esista: quella per ciò che non è mai accaduto. Il calcio non è sempre grato con chi lo ha nutrito di bellezza. Non è una questione di colpe, di una parte o dell’altra. E’ che quando finiscono di essere giocatori spesso i giocatori simbolo finiscono anche per diventare dei simboli a modo loro, un po’ sgretolati, bandiere difficili da tenere issate, realtà calate in un “dopo” che non si sa più quale sapore abbia o, per alcuni, che volto abbia. Prendete Maradona e il suo controverso rapporto con Napoli e il Napoli. Circola voce che Aurelio De Laurentiis in persona si sia rifiutato di offrire aiuti morali e materiali per la realizzazione di un documentario sul Pibe messo in cantiere da Sky in vista dei Mondiali. E la spiegazione è abbastanza inattaccabile: “Maradona non è l’ambasciatore del Napoli nel mondo”. In pratica Maradona non è il Napoli. Poi però il Napoli ritira la maglia n.10. Più controversa di così la relazione non potrebbe essere. Del resto, lo stesso Del Piero ha chiuso la sua gloriosa avventura alla Juventus come se improvvisamente il club si fosse accorto di avere un nemico in casa. La sua separazione è stata così amara che non ha quasi senso chiamarla “fine carriera”. Quei mesi di assurda convivenza con Antonio Conte avrebbero potuto cancellare ogni traccia d’emozione, ogni trascorso. E poi perché? Perché il calcio è costruito sulla reciproca convenienza, lavoratore e datore di lavoro. E alla fine è pur sempre un affare. Ma non di cuore. A volte viene da riflettere: e se fosse che i più decisivi in campo sono i più scomodi fuori? E’ vero, non tutte le bandiere sono disponibili a nuovi incarichi. Ma in discussione non c’è soltanto il coinvolgimento diretto. C’è anche la diffidenza nel continuare a sentirsi rappresentati da una gloria del passato. Esemplare che, uniti anche nell’età avanzata, sia Rivera che Mazzola abbiano sviluppato più anticorpi che riconoscenza verso i loro club. Rivera e il Milan non si sono mai più trovati. Mazzola e l’Inter sono due vocaboli associabili solo fino ad un certo punto del secolo scorso. Anni fa Rivera venne accostato a una possibile presidenza federale, ma era soltanto la fantasia di un manipolo di sognatori o di visionari o di illusi. Ci disse Gianni: “Io lo farei pure il presidente, ma a quel punto dovrebbero fare quello che dico io. Quindi non farò il presidente della Figc”.

Quindi ci sono le bandiere che sventolano finché morte non le separano (pensiamo a Bobby Charlton e se vogliamo a Totti, che pur nel suo indefinibile ruolo-non-ruolo riesce ad essere comunque utile) e quelle che lentamente finiscono arrotolate nella custodia, come fossero oggetti vintage da tirar fuori con orgoglio e senso d’apparteneza nelle conversazioni in salotto, ma mai per un evento istituzionale. La sensazione è che non si possa fare niente. Le dinamiche sono regolate dalle relazioni fra gli individui. I club sono rappresentati sempre da individui, sempre diversi peraltro, e le bandiere sono individui. A volte si trovano a meraviglia, a volte non si trovano per niente. Se Pelè avesse ricevuto più accoglienza al Santos dopo la sua esperienza americana con i Cosmos, probabilmente sarebbe entrato nello staff, avrebbe avuto un incarico nel club e non si sarebbe dovuto sorbire le rampogne dei nuovi padroni del Santos che lo hanno a più riprese accusato di essere l’artefice (forse mediante macumba…) dei pessimi risultati degli ultimi vent’anni, almeno fino all’arrivo di Neymar. In Olanda sono particolarmente feroci con le antiche divinità. Se tradisci sei finito. In casa Ajax, Crujiff era considerato alla stregua di uno che andava in giro spargendo gocce di veleno nei bicchieri dei commensali del centro tecnico. Quando divenne consulente, nel 2015, impiegò pochi giorni per rendersi conto che aveva intorno solo nemici mascherati da servili e viscidi impiegati e rinunciò all’incarico. Uno gli disse: “Tornatene in Messico”. Ma Cruijff, che era stato dg dei Chivas, non tornò in Messico. Tornò a Barcellona per una ragione molto importante. Tornò per morirci. Van Hanegem è costretto a fare il commentatore televisivo perché i dirigenti del Feyenoord sono convinti che sia anche lui una specie di minaccia che viene dal passato e che se gli permettessero di entrare lui non farebbe che seminare zizzania con le sue “idee innovative e i suoi progetti per le scuole calcio”, così ci racconto lo stesso Van Hanegem, “che non portano da nessuna parte perché non sono realizzabili”. E chissà come si dice zizzania in olandese (il vocabolario dice “dolik”).

A Ryan Giggs il Manchester United ha praticamente detto: “Tu al massimo puoi fare il secondo”. Erano i tempi di Moyes e Van Gaal. Giggs è il paradosso perfetto: sul campo ha collezionato una bellezza dopo l’altra, in panchina solo parti irrilevanti o quasi, come essere assistente, essere ad interim o essere il vice di un despota (che vuol dire non contare nulla). E invece avrebbe meritato una chance più dignitosa, magari poteva diventare il Guardiola inglese. Adesso possiede quella specie di multiproprietà (dei ragazzi del ’92) che è il Salford City, i cui padroni sono appunto Phil Neville, Gary Neville, Nicky Butt, Paul Scholes e Giggs. Ma il gallese sognava ben altro. Poi ci sono le bandiere che si mettono in testa di tornare con la cavalleria, perché a volte è più bandiera che non sa stare senza la sua squadra. Ricordate Chinaglia? Nemmeno i cavalli erano veri. La Lazio pagò il suo entusiasmo alla Nando Mericoni grazie al quale “fece Tarzan” davanti a tutti,  raccontò ai tifosi di avere le massime garanzie economiche dalla Warner. Ma non aveva un soldo bucato. Persino Gigi Riva non ha mai capito se fosse veramente il caso dedicarsi al Cagliari, benché Cagliari sia sempre stata casa sua, lui che si è sempre dedicato alla Sardegna, con tutto quello che aveva, cuore e soldi, e che è sempre stato dalla parte dei pescatori, degli agricoltori, dei pastori. Ebbene il giorno che Gigi Riva divenne presidente del Cagliari si pentì quasi subito: si era fidato della cordata di imprenditori che aveva salvato la squadra dalla fallimento dopo la pessima gestione di Fausto Moi. Ma c’era bisogno di 330 milioni al mese solo per l’ordinaria amministrazione. E di questi soldi non c’era traccia. Riva si sentì preso in giro, messo in mezzo. Dopo pochi mesi si dimise. Un questo caso, una bandiera senza soldi è una bandiera bucata che non si alza nemmeno quando soffia il maestrale. E in Sardegna il maestrale soffia forte. Sembra quasi un rombo di tuono.
 

fonte: Repubblica.it

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