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Il talento cristallino e impossibile di Grant Hill

Forse la migliore definizione di cosa sia un giocatore da Hall of Fame l’ha data il giornalista americano Howard Beck in un recente podcast con Zach Lowe: per Beck un giocatore è da Hall of Fame se l’era in cui ha vissuto (che può essere un lustro come una decade) non può essere descritta senza la sua presenza. Non importa il numero di titoli, quello che conta veramente è l’impatto che quel giocatore ha avuto nella narrazione della NBA.

Questa definizione voleva essere a favore della candidatura futura di Manu Ginobili, ma può perfettamente essere utilizzata per parlare di Grant Hill. Perché è vero che la sua legacy nel basket è per sempre legata a quei due titoli consecutivi vinti con Duke University (la Hall of Fame è del basket in tutte le sue forme, non solo la NBA), ma pur non avendo vinto nulla nella lega di David Stern è impossibile non nominare il suo nome volendo descrivere la seconda metà degli anni ‘90. Le stesse caviglie sfortunate che ci hanno privato del suo prime e non hanno permesso a lui di raccogliere in NBA in termini di argenteria quanto il talento permettesse, sono un punto di svolta epocale in una lega che era alla disperata ricerca di una nuova stella da spingere, visto che Michael Jordan che aveva cannibalizzato tutti i contemporanei e si avviava a lasciare.

Una stella dal primissimo giorno

L’imprinting dei tifosi NBA con il gioco di Hill è stato paragonabile a pochissimi. Arrivato a 22 anni con due titoli NCAA alle spalle (a proposito: è il primo giocatore uscito da Duke ad entrare nella Hall of Fame), dal primissimo giorno ai Detroit Pistons Hill è considerato una stella fatta e finita. Un giocatore che arriva in una squadra che deve rialzarsi dopo l’epopea dei Bad Boys e rappresenta immediatamente una sorta di messia. Per dare un’idea: nella sua stagione da rookie è già nominato All-Star e lo sarà nei successivi quattro anni, fino al primo grande infortunio. Al suo secondo anno è già secondo quintetto All-NBA, al suo terzo è primo quintetto (e terzo nei voti per l’MVP), nei successivi tre anni ancora sempre secondo quintetto. Viene quindi considerato un top-10 NBA ogni anno fino all’arrivo degli infortuni.



Il giornalista Chris McCosky del Detroit News ha vissuto in prima persona i primi anni di Hill e gli brillano gli occhi parlando del gioco suo gioco: “Poteva fare tutto: era una point forward prima ancora che si parlasse di questo concetto. Era intelligente, atleticamente una forza della natura e poteva difendere anche, cosa per cui nessuno gli dava abbastanza credito. Era un talento all-around”. Quello dell’all-around è un concetto che sarà poi personificato e normalizzato dall’arrivo di LeBron James, ma che all’epoca era ancora qualcosa di nuovo e quasi esotico, un po’ come quello degli unicorni per la NBA attuale un inedito rispetto a giocatori che tendevano sempre più verso la specializzazione per riuscire a competere con l’egemonia di Michael Jordan. Il primo della nuova specie era stato forse Scottie Pippen; sicuramente poi ci è passato Penny Hardaway; ma è dall’entrata contemporanea in NBA di Hill e Jason Kidd che questo concetto si fa Zeitgeist.

Improvvisamente i due prospetti più eccitanti erano in grado di imporsi ogni notte in modo totale sul tabellino di fine gara. Ora è quasi la normalità ed è concepibile che un giocatore possa ambire alla tripla doppia ogni partita (per dire, Russell Westbrook ci ha vinto così il suo MVP). Ma Grant Hill e Jason Kidd in questo erano la personificazione di qualcosa che la NBA sembrava chiedere a gran voce: impersonificavano un tipo di basket che potesse cambiare pagina rispetto a quello sempre più specializzato che Jordan e Pippen avevano dominato. Entrambi potevano essere nella stessa azione il miglior realizzatore, il miglior rimbalzata o il miglior playmaker in campo. A mostrare meglio di qualunque altra cosa il loro impatto immediato rimane il premio di co-Rookie dell’anno. E se Kidd era prima di tutto una macchina da creazione di gioco, Hill aveva nelle mani un arsenale offensivo con pochi paragoni. Per capirci: nelle loro prime 6 stagioni solo Oscar Robertson, Larry Bird e LeBron James hanno fatto più punti, rimbalzi e assist combinati di Grant Hill. Grant Hill era senza reali debolezze per il basket in cui viveva.




Fonte: SkySport

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