CALCIO ESTERO

Darius Miles, la folle realtà NBA di un ex 18enne

Casa sua – East St. Louis – Darius Miles la descrive così: “Pistole. Droga. Una sensazione di pericolo dalla mattina alla sera. Non lo dico per vantarmi, sia chiaro, ma è così: sono solo 89 isolati, ma sono la capitale degli Stati Uniti per numero di omicidi”. A pronunciare queste parole è Darius Miles, ma forse non tutti si ricordano chi è Darius Miles: nel 2000 i Clippers ne fanno la terza scelta assoluta al Draft perché proprio del nuovo millennio Miles sembra essere il giocatore simbolo, il prototipo avanzato, il futuro incarnatosi improvvisamente nel presente. Lungo, atletico, con tanto talento (ma zero tiro, ed è lui il primo a riconoscerlo: “Non riuscivo a tirare un sasso nell’oceano”, scrive) – un talento che gli assicura una chiamata NBA senza neppure dover passare dal college. Dal suo liceo di East St. Louis direttamente nella lega, a soli 18 anni. E qui, invece che una storia di successi, iniziano i problemi. Che l’ex Clippers ha voluto ricordare senza filtri in una recente confessione pubblicata sul sito The Players Tribune, a metà tra il comico e il tragico, tanto divertente quanto interessante nel rivelare lo shock culturale dietro l’angolo quando si parla dell’impatto di giocatori ancora adolescenti con il mondo NBA. “Solo Donald Sterling [il controverso proprietario dei Clippers, poi silurato dalla lega, ndr] poteva pensare di dare milioni di dollari a un 18enne come me e a un 19enne come Quentin Richardson [18^ scelta assoluta a quello stesso Draft, ndr] e catapultarci in una realtà come quella di Los Angeles. ‘Q’ viene dalle strade di Chicago, io da East St. Louis. Mia madre guidava uno scuolabus, mio padre la metropolitana: dopo il Draft mi ritrovo su un jet privato che mi porta a L.A., quando scendo c’è un autista con la limousine che mi aspetta, che tiene in mano un cartello col mio nome e mi porta in uno dei migliori hotel di Beverly Hills, quello dove Ja Rule aveva appena girato il video della sua ultima canzone”. Darius Miles comincia ad accusare i primi, metaforici, giramenti di testa, vertigini da successo, se si possono chiamare così. Perché è difficile volare alti senza schiantarsi, se le basi non sono solide. E Miles ripete all’infinito una frase che per lui spiega tutto: “Io vengo da East St. Louis”. La traduzione la fornisce snocciolando una serie quasi infinita di aneddoti: “A 12 anni stavo giocando a basket in mezzo alla strada coi miei amici quando arriva un tizio che mi punta una pistola carica tra gli occhi. Era convinto gli avessi rubato l’auto, o l’autoradio, qualcosa. Mi sono salvato facendo il nome di mio padre – che non vedevo mai, ma che sapevo avere una reputazione da strada”. O ancora: “Hanno cercato di spararmi più volte. Ho amici in carcere, altri che sono stati uccisi, tanti miei cugini spacciavano, altri erano affiliati alle gang”. La sua realtà era quella, “e in tutta onestà non credo che un ragazzo del Montana che legge queste cose possa realmente capirle. Per noi invece era la normalità: il nostro obiettivo era solo sopravvivere, non avevamo sogni”. C’era la pallacanestro – “smettevano di spacciare per due ore per venirci a vedere giocare: a 13 anni giocavo contro gente di 30 che dopo le vittorie passavano a casa a chiedere a mia madre il permesso per farmi andare con loro allo strip club a festeggiare” – e l’esempio di LaPhonso Ellis, l’unico a riuscire a venir fuori da quelle strade finendo per arrivare nella NBA.

Fonte: Sky

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