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Sconfitte, fischi e classifica da pianto. La Milano del pallone precipita

MILANO – Il Fidelio ha ricevuto dodici minuti di applausi, viva Beethoven e viva la prima della Scala. Prima e dopo l’Evento, lo sguardo benedicente di Sant’Ambroeus non ha però impedito che Milan e Inter ricevessero meritate pernacchie, mescolate ai fischi che San Siro come al solito non ha lesinato, per salutare un’altra delle loro giornate nero pece. Due sconfitte chiare, persino educative, contro Genoa e Udinese: era già accaduto alla decima, che le milanesi perdessero insieme, all’epoca contro Parma e Palermo, mentre una doppia vittoria si è verificata una sola volta in questo campionato, alla seconda giornata. La classifica che dunque è un pianto, tanto per cambiare. Il Milan settimo a 21 punti, e chissà dove sarebbe senza qualche provvidenziale aiutino arbitrale delle ultime settimane; l’Inter addirittura dodicesima, e più vicina al terz’ultimo posto (distante sette punti, e con sole cinque squadre a separarla dal Chievo) che al terzo (ora a -9 e con otto squadre da scavalcare).
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Si precipita, e il bello è che non c’è davvero molto di che stupirsi. Sono gli inevitabili strascichi della fine dell’era del mecenatismo, incarnata alla perfezione da Berlusconi e Moratti: si è calcolato che i due abbiano speso insieme circa 3 miliardi di euro negli ultimi vent’anni per sostenere e far vincere Milan e Inter, e che gli dei del calcio milanese rendano loro merito in eterno, per carità. Poi, non solo per la crisi economica internazionale, i due mecenati hanno detto basta. Perché di soldi se n’erano spesi troppi, perché le regole del Fair Play Finanziario non permettono più di spendere più di quanto si incassi, perché ogni bella storia ha bisogno del suo epilogo. Ma il vero problema di tutta questa storia è che Berlusconi e Moratti il passo indietro non sono riusciti a farlo davvero, e di fatto sono ancora lì, con delle propaggini di se stessi, forse solo con la loro ombra, ma sempre lì sono.
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Berlusconi ha ancora in mano la sua creatura, non ha voluto né forse ha potuto liberarsene, ma la sta gestendo con evidente stanchezza: si cerca di rinvigorire a parole il mito della grandeur passata ma le campagne acquisti sono quelle che sono, si arranca alla ricerca di improbabili quando non improduttivi giocatori a parametro zero o a zero energie, si cercano scommesse in panchina sperando che ex grandi giocatori si improvvisino di colpo grandi allenatori (Seedorf, Inzaghi), insomma si naviga a vista senza avere la forza di fare l’unica cosa che sarebbe necessaria: ripartire da zero con una nuova squadra, nuovi giocatori, nuovi dirigenti, e nel frattempo ammettere col popolo che bisognerà avere pazienza e aspettare due o tre anni prima di rivedere la luce, come minimo, perché il mondo è cambiato e qui dobbiamo ancora adeguarci, scusate il ritardo.

Diverso, ma in fondo analogo, il discorso per l’Inter. Moratti è stato costretto a cedere il club, strangolato da passivi di bilancio monstre e da una situazione debitoria allarmante sul piano personale, ma la transizione da lui a Thohir non è stata naturale, né serena, e si trascina ancora tra qualche equivoco di troppo. A parte il fatto che l’anima morattiana è stata ben presente per almeno un anno e spesso si è scontrata con i nuovi dirigenti, creando situazioni imbarazzanti all’interno del club, c’è da dire che il nuovo proprietario indonesiano è un uomo di altri mondi, fatica e faticherà ancora a interpretare col giusto spirito il calcio italiano e le sue infinite diramazioni, che spesso sfuggono al rigido controllo dei numeri e dei bilanci. Infatti ha già compiuto i suoi errori, mister Thohir, a cominciare da quel prolungamento contrattuale a Mazzarri la scorsa estate prontamente smentito dalla decisione di esonerare il tecnico a metà novembre, causa intemperanze ambientali: un errore di pianificazione e di interpretazione della propria realtà che tanto somiglia a quelli dei presidenti italiani. Come pure è stato un errore pensare che l’ingaggio di Mancini, con l’entusiasmo che avrebbe (e ha) portato nell’ambiente, bastasse per rivitalizzare una squadra che ha limiti strutturali e inadeguatezze in ogni reparto, a cominciare da quello difensivo. E dal mercato, condotto come quello del Milan al risparmio per i ben noti problemi di bilancio, non sono arrivati elementi in grado di cambiare il corso delle cose.

Perché c’è un altro enorme problema, in questo triste autunno del calcio milanese e dei club che lo rappresentano da oltre un secolo: sparita la possibilità di comprare i calciatori più costosi e più bravi, nessuno è stato in grado di scoprire il campione a costo ridotto, nessuno ha avuto l’intuizione giusta, nessuno è stato in grado di scovare la perla nel fango, come anche ai grandi club ogni tanto accade. Come se insieme al denaro dei mecenati, fosse scomparsa anche la competenza, e la capacità di muoversi nel difficile mercato internazionale traendone beneficio. Il che, a ben guardare, è un problema che va oltre i semplici confini del calcio milanese, e forse coinvolge l’Italia tutta nel suo rapporto col resto del mondo.

Fonte: Repubblica

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