Fiducia, solidità e il mercato. Così l’Inter è tornata a comandare
MILANO – Sentirsi di nuovo vivi è anche specchiarsi nei numeri, che a volte danno vertigini. Come quel dato, che gli interisti apprendono al risveglio dopo la vittoria nel derby: nei vari campionati europei, oltre all’Inter ben poche altre squadre sono a punteggio pieno, e si tratta di Barcellona, Manchester City, Bayern Monaco e Borussia Dortmund. Non male come compagnia, anche se gli altri campionati sono leggermente più avanti della serie A, chi di un turno, chi di due. Ma servono anche questi numerelli per caricare l’ambiente nerazzurro, che di nuove energie mentali e di nuove positività aveva bisogno per tornare a vivere, per tornare a immaginare, o sperare, di essere ancora tra le migliori, di contare davvero, insomma di esserci. Per questo il primato in classifica, e in solitaria, è un’altra frustata di energia: non accadeva da cinque anni esatti, settembre 2010, che l’Inter fosse prima e unica in serie A. Una vita. E non accadeva dal settembre 2002, addirittura, cioè dai tempi di Hector Cuper, che l’Inter vincesse le prime tre partite in fila.
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Non è ancora un’Inter dominante, ovvio, né potrebbe esserlo: da troppi anni di mediocrità arriva, per poter essere improvvisamente egemone. Ha vinto le prime tre partite e tutte di misura, nel risultato (1-0 all’Atalanta, 2-1 al Carpi, 1-0 al Milan) e anche nel rendimento in campo, perché finora l’Inter non ha mai asfaltato gli avversari, non li ha mai stritolati. Del resto non ce n’è bisogno, per vincere. Eppure in ognuna di queste tre gare, vinte soffrendo eppur vinte, anzi strappate di forza, l’Inter ha offerto di sé, a saperla guardare, un’impressione nuova: quella di essere tornata in un certo qual controllo di se stessa, insomma di aver riscoperto antiche sicurezze, o di essersene creata di nuove. La nuova Inter di Mancini, rivoluzionata negli uomini e nell’atteggiamento, sembra una squadra sicura di sé, che crede in quello che fa e che sente di potercela fare, di poter piegare gli eventi in suo favore. E’ un cambiamento radicale, rispetto al passato, ed è tutto mentale, prima ancora che tecnico o tattico. Fiducia e solidità, questo sembra aver portato finora Mancini. Poi ovviamente c’è anche l’aspetto tecnico, e la qualità calcistica che i nuovi hanno portato, a cominciare da Jovetic, in queste prime tre partite sorta di folletto inafferrabile per qualsiasi difesa, o Miranda in difesa.
Ma nel derby ha cominciato a stagliarsi la figura di Felipe Melo, all’esordio interista ma già perfettamente a suo agio nel contesto, anzi già protagonista per il suo controllo psicologico sul gruppo, sulla gara, sugli avversari. Il brasiliano ha giocato il primo derby milanese e la sua prima gara da interista come se avesse già collezionato duecento presenze in nerazzurro o fosse un milanese e interista di nascita, per giunta fieramente antimilanista. Carica enorme, presenza scenica, le parole giuste a compagni e avversari, un’interpretazione tattica eccellente per cancellare Honda dal campo e per raddoppiare e aiutare chi era in difficoltà e molte altre cose. Sguardo feroce e temperamento da leader, Felipe Melo era chiaramente il tipo di centrocampista che mancava all’Inter. Ne risentiremo parlare, e quasi ogni domenica. Anche perché è un tipo mai banale nelle dichiarazioni, come quelle offerte dopo la vittoria nel derby: “Rispetto alle mie prime esperienze italiane nella Juve e nella Fiorentina mi sento più forte, soprattutto di testa. Mi hanno criticato prima del mio arrivo? Non me ne frega niente. La gente spesso parla troppo e magari non conosce le mie prestazioni degli ultimi anni. Sono venuto qui per aiutare l’Inter ad arrivare in alto ed è l’unica cosa che mi interessa. Come l’unica cosa che mi interessava era battere jl Milan. E’ successo, grazie a Dio. E i capi di Milano, ora, siamo noi”. Parleremo spesso di Felipe, c’è da giurarci.
Inter
- Protagonisti:
- Roberto Mancini
Fonte: Repubblica