Juventus, da Bonucci ai panchinari-gol: vince il medodo Allegri
PORTO – Nel tempo l’impresa del Dragao, che era inviolato dall’aprile dell’anno scorso, resterà come la partita che ha praticamente traghettato la Juventus nei quarti di finale di Champions League. Ma ieri, oggi, in questi giorni è stato il trionfo personale di Massimiliano Allegri, l’uomo che si è imposto alla squadra con la forza delle sue scelte, la pesantezza delle sue decisioni e le illuminazioni dei suoi colpi di genio. Era nel mirino, perché la gestione del caso Bonucci lo aveva collocato su un terreno molto scivoloso, in bilico tra le ragioni che aveva e la possibilità di passare rapidamente dalla parte del torto: cosa gli avrebbero rinfacciato se la Juve avesse perso a Porto, se la difesa senza Bonucci (e con due giocatori in condizioni di salute imperfette, Barzagli e Chiellini) avesse imbarcato acqua e se lo spogliatoio, di conseguenza, avesse tacitamente deciso di schierarsi a favore delle anarchiche ribellioni di questi mesi e contro la durezza fermamente imposta dal suo allenatore? Quel che è certo è che la notte portoghese ha irrobustito la posizioni di Allegri anche, se non soprattutto, agli occhi dei suoi stessi giocatori. C’è senz’altro stata una componente di casualità nella straordinaria efficacia delle sostituzioni del Dragao. Ci ha messo becco il destino, se due panchinari hanno risolto la partita pochissimi minuti dopo essere stati chiamati in causa. Ma sono segnali anche questi, e contano: non era forse Napoleone a sostenere che fosse meglio un generale fortunato di uno bravo? Lui, in ogni caso, non ha calcato la mano, limitandosi a un sobrio tweet: “La pazienza necessaria, la giusta attitudine, un risultato che dà fiducia: questa SQUADRA cresce in consapevolezza”. Quella parola scritta in caratteri tutti maiuscoli è molto significativa.
Sta di fatto che anche questa volta Allegri ha dimostrato, prima di tutto, la sua straordinaria capacità di dare il meglio di sé nei momenti più complicati, nelle situazioni più scabrose: lui riesce a mantenere il sangue freddo, a conservarsi sereno, a sciogliere la tensione prima che diventi palpabile (e contagiosa), a risultare profondamente credibile. Era successo lo scorso anno, durante la crisi di settembre/ottobre, così come nei suoi primi mesi Torino, quando raccolse una squadra choccata dalla fuga di Conte e la portò fino al punto più alto di questi anni, la finale di Champions: ci credeva solo lui, a inizio stagione. Quest’anno il suo rapporto con lo spogliatoio (e con la società) è senz’altro più tribolato. È evidente come siano in crescita le possibilità che a fine stagioni lasci la Juventus. Per la verità se ne sarebbe andato già l’anno scorso, se avesse avuto per le mani una possibilità di carriera, ma poi il Chelsea scelse Conte e non lui. Ora la situazione non è molto diversa: lui resterebbe volentieri, la società lo terrebbe molto volentieri (il casting per trovare il suo sostituto non sarebbe agevolissimo) ma la sua ambizione è quella di prendere una strada diversa, prima o poi (“Non starò certo per sempre alla Juve”, ha spesso ripetuto), e se gli si presentasse un’opportunità la coglierebbe. Il mercato delle panchine internazionali è in subbuglio, ce ne sono moltissime di instabili, tra quelle i primissimo livello perché solamente Manchester United (Mourinho), Chelsea (Conte) e Bayern Monaco (Ancelotti) sono certi al cento per cento che da qui alla stagione prossima la guida tecnica resterà la stessa. Ci saranno movimenti. Allegri è sulla giostra, anche perché è un irrequieto, dopo un po’ di tempo avverte la voglia di cambiare e sa che il ciclo di un allenatore in squadra dura al massimo dai tre ai cinque anni. Ferguson e Wenger non fanno testo.
Forse anche per questo in questa stagione la convivenza è stata più tormentata: i rapporti, come è inevitabile che sia, cominciano a logorarsi. Ed è stato più difficile, per Max, tenere tutto sotto controllo, tant’è vero che lui stesso il controllo lo ha perso in più di una circostanza, e questo non è da lui. Alla luce di quello che è poi successo nelle settimane successive, assume un significato più nitido anche lo sfogo di Doha, subito dopo la sconfitta in Supercoppa con il Milan, quando urlò in faccia a Marotta la sua rabbia nei confronti dei giocatori: “Li prenderei a calci nel sedere”. Nei due anni precedenti non aveva mai avuto motivo di lamentarsi dei suoi (se non all’inizio della stagione passata, ma per altre ragioni: nella squadra c’era troppa presunzione), che invece in questi mesi di motivi per farlo gliene hanno date parecchie. Porto può essere un punto di svolta. Allegri ha dimostrato di avere ancora il tocco magico, di aver avuto ragione a fare il duro, di avere ragione e basta. Adesso, con questa autorevolezza, e questa autorità, riaffermate potrà riprendere a pilotare la Juve come vuole lui, lasciando sullo sfondo sia i disagi nei rapporti personali con qualche giocatore sia le interferenze che continueranno ad arrivare dal mercato. In fondo, è quello che ha detto sempre alla squadra, si tratta di darci dentro per tre mesi. Cento giorni. Per provare a vincere tutto. Poi, ognuno sarà libero d’imboccare la strada che più gli aggrada. E di mandarsi reciprocamente a quel paese, nel caso. calcio
- Protagonisti:
- massimiliano allegri
Fonte: Repubblica