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Nella testa di Totti: quel rigore all’Australia…

26 giugno 2006: il rigore di Totti porta l’Italia ai quarti di finale (getty)

Non pensare al rigore. Non ci pensare, hai ancora un po’ di tempo. Pensa a qualcosa che ti renda leggero. Pensa a questi ultimi quattro mesi. Ecco, pensa a quella dannata sveglia…
Mattino. Ogni mattino. Vito passa a prendermi alle otto e mezza, giusto il tempo di dare un bacetto a Christian, e devo scendere. Ho provato a guadagnare tempo dicendogli di salire a prendere il caffè, ma quello non ci sente: la palestra di Trigoria apre alle 9, e prima delle 11 la squadra non si fa vedere. Due ore tutte per me. L’esercizio che mi fa vedere le stelle – e non intendo una bella cosa – è il primo messo nel programma appena tolto il gesso: devo saltare sulla gamba convalescente, da un tappeto elastico all’altro. Che poi uno pensa: se la superficie è elastica, assorbirà il novanta per cento dell’impatto. Balle. Ogni atterraggio porta un male da urlare. Ma Vito, che mi tiene per un braccio dovesse mai cedermi la gamba, dice che è il classico male portatore di un bene. Il perone si rafforza. Il legamento ritrova elasticità. Così io ingoio un altro sorso di dolore, e preparo il balzo successivo. Per due ore, ogni mattino.

 

Potrei prendermela un po’ più calma, ma questo è l’unico modo per sperare di non perdermi il Mondiale. Attenzione, non ho detto per non perderlo, devo accontentarmi di sperare. Ė tutto appeso a un gancio del destino che non riesco nemmeno a vedere, ma so che c’è. Ho letto che Agassi, quando il mal di schiena lo tormentava oltre misura, in qualche strana maniera si “separava” dal suo corpo per non sentire più la sofferenza delle vertebre malconce, e che così facendo anche la testa – esausta – si assentava per un po’, bisognosa di riposo. Ecco, a me non è mai successo. La gamba gridava la sua ribellione, la sbarra di ferro che sosteneva il perone sembrava incandescente, la caviglia mi pregava sommessamente di smetterla, perché non meritava un simile trattamento. Ma la testa era sempre lì, pronta a discutere con tutto il corpo, partecipe del dolore ma decisa nel sostenere che ne valesse la pena. Per un calciatore una frattura al perone il 19 febbraio vuol dire arrivederci alla stagione successiva. Settembre. Per me, invece, l’appuntamento era fissato a giugno. Salta. Atterra. Sopporta. Salta. Atterra. Sopporta. Salta. Atterra. Sopporta. Ogni mattino, per quattro mesi, se vuoi anche soltanto sperare di non perderti il Mondiale.
 

L’arbitro mi invita a spostare il pallone, a piazzarlo meglio sul dischetto, tre centimetri più indietro. Una sciocchezza studiata per guadagnare qualche altro secondo, sapevo che me l’avrebbe fatto risistemare, apposta l’ho messo più avanti: il calcio di rigore è un duello fra due paure, ma se viene tirato al 95′ di una gara mondiale a eliminazione diretta la paura diventa terrore. Tutto sta a saperlo maneggiare, e qui l’esperienza conta. Non si dovrebbe mai fare, ma ho già dato una sbirciatina a Schwarzer, il portiere australiano. È indignato e potrebbe aver ragione, non mi sembra che il difensore abbia buttato giù Grosso, facile che sia andato lui a cercare il contatto. Beh, per me non cambia niente, sai quanti ne ho tirati e ne ho subiti di rigori mezzi fasulli, o inesistenti proprio. È la vita, caro Schwarzer. Abbiamo un appuntamento, vedi di non mancare.

Riprendo la rincorsa senza voltarmi. Avverto dietro di me la presenza di Pirlo. Quando l’arbitro ha fischiato il rigore ha preso la palla in mano, il tiratore designato era lui, io stavo giocando da un quarto d’ora soltanto, all’inizio Lippi m’aveva mandato in panchina. Però sappiamo tutti che il rigorista migliore sono io, e infatti Andrea me l’ha passata senza un attimo di esitazione, “tira tu” e basta, s’era già voltato. Pirlo ha quella faccia da poker che non ti permette mai di leggergli dentro, ma avrei giurato che, porgendomi il pallone, intimamente sorridesse. Tieni Francesco, cazzi tuoi. Sei tu l’eroe, pagane il prezzo. Schwarzer ormai si sta muovendo sulla linea di porta, digrigna i denti per farsi coraggio, sta chiamando i miei occhi per catturarli, pensa sia un ingenuo. Quando ho accettato il pallone da Pirlo ho dato un rapido sguardo in giro, e fra i compagni ho visto il sollievo e la stanchezza. Il sollievo perché questa è un’occasione insperata di saldare subito il conto e chiuderla qui, e di me si fidano; la stanchezza è logica dopo più di mezz’ora a giocare uno di meno, e anche se l’Australia non è il Brasile lo stress di dover sopravvivere azione dopo azione è di quelli che ti mettono in ginocchio. Se vogliamo uscirne vivi dobbiamo evitare i supplementari. Dobbiamo passare attraverso la cruna dell’ago di questo rigore, e uscirne alla grande, tipo 007 quando si trova al centro di un’esplosione, e ne emerge in perfetto tight, scrollandosi la polvere di dosso con un paio di schiaffetti come se fosse la cosa più naturale del mondo. Prima di depositare la palla sul dischetto ho voluto guardare anche Lippi, e lui era lì ad aspettarmi. Pure questa volta. Mi ha fatto un gesto rapido, con la mano, a intendere che non c’è problema, i rigori per me sono un giardino fiorito. Se per tre mesi ho faticato, sudato, sopportato e sofferto di tutto, era per trovarmi qui in questo momento: il pensiero mi esplode in testa all’improvviso, e tutto trova un suo senso perfetto. Vai Francé. Vai e uccidi.

Fonte: SkySport

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