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Ciro, una morte e tanti dubbi. L’inchiesta aspetta la svolta

Centotrentadue giorni dopo, il dolore è ancora intatto. Come i dubbi, enormi, alcuni laceranti, che accompagnano la tragedia di Tor di Quinto, e che più di quattro mesi di indagini non hanno chiarito, mettendo in discussione certezze che si pensavano solide, minacciando di riscrivere le circostanze in cui l’ex ultrà romanista Daniele De Santis ha tirato fuori la Benelli 7.65 con matricola abrasa, sparando ai tifosi napoletani che gli erano addosso.
Perché non parla? Centotrentadue giorni di interrogatori dei pm, perquisizioni della Digos, deposizioni dei testimoni, video spediti in Procura, fino alle recenti perizie disposte dal gip ed effettuate dai carabinieri, non sono bastati a illuminare la scena. Ci mancano le versioni dei due protagonisti, la vittima e il carnefice: Ciro Esposito, morto dopo 53 giorni di agonia, non ha fatto in tempo a raccontare la sua verità agli inquirenti, se non attraverso una registrazione raccolta dai suoi cari. Daniele De Santis, il solo indagato per l’omicidio volontario del 29enne napoletano, non ha ancora potuto e voluto farlo. Le sue uniche parole su quanto avvenuto quel pomeriggio sono ferme all’interrogatorio di garanzia del 7 maggio, quando biascicò poche frasi sconnesse: «Ho sentito vari botti, non so quello che ho fatto, ho preso un sacco di mazzate, non sono andato io a Napoli, non ricordo se ho sparato, con tutte quelle botte…». Non è stato più ascoltato, o forse è meglio dire che non si è fatto più interrogare. Né è stato ancora fissato un nuovo appuntamento. Con tutto il rispetto per le gravi condizioni in cui ancora versa nell’ospedale di Viterbo in cui resta piantonato, non si capisce il perché. Fatto sta che, tra tanti elementi ancora da chiarire, c’è quello fondamentale in ogni indagine, il movente: perché alle 18 circa del 3 maggio Daniele De Santis — pluripregiudicato, da sempre legato all’estrema destra romana, ma da un po’ fuori dal giro — esce dalla sua abitazione, collocata in un centro sportivo al civico 57/b di viale Tor di Quinto, e a volto scoperto comincia a inveire e a lanciare bombe carta contro un pullman di normalissimi tifosi del Napoli (famiglie, bambini, perfino un disabile) incolonnato sul viale in direzione dello stadio Olimpico, dove tre ore dopo si sarebbe giocata la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina?
Quei secondi mancanti È «la prima fase della dinamica delittuosa», come sta scritto nella relazione dei carabinieri del Racis, l’azione ancora immotivata («Un agguato», per i legali della famiglia Esposito; «una reazione a scontri già esplosi», la tesi degli avvocati difensori) che innesca la rincorsa di Ciro Esposito e dei suoi compagni, che di corsa attraversano la careggiata, piombano su De Santis nel frattempo riparato all’interno (mentre i suoi quattro complici sono già scappati), lo raggiungono, Ciro lo placca e… stop. La prima fase, su cui grosso modo convergono ricostruzioni dei pm, relazioni dei periti e testimonianze (ma non video, perché nessuno ha ripreso questa scena), termina qui. È su quanto accade dopo che ci si divide. Sui secondi che trascorrono dal «placcaggio» ai quattro spari in rapida sequenza: quanti ne sono passati? Cosa è realmente accaduto prima che De Santis impugnasse la pistola e sparasse? La perizia del Racis ipotizza che prima di sparare Gastone è stato «sopraffatto dai suoi aggressori», «ferito e sanguinante», forse perfino «accoltellato» dal gruppo di Ciro. Il che consente ai suoi legali di chiedere il «tentato omicidio per i tifosi napoletani» e ipotizzare la «legittima difesa» per il loro assistito. La ricostruzione dei carabinieri si basa su due campioni di sangue: la pozza rilevata nel punto della sparatoria e le tracce sulla pistola, tutte riconducibili al De Santis, che a quel punto, «con le mani sporche del suo stesso sangue, probabilmente da terra», ha sparato. La tesi dei pm Eugenio Albamonte e Antonino Di Maio, confermata anche alla luce della ricostruzione del Racis, è un’altra e sposta il ferimento di De Santis dalla colluttazione (che comunque c’è stata) alla fase successiva, la terza, quando Gastone, dopo aver sparato («E da in piedi», sostiene il medico legale incaricato dalla Procura), viene ripetutamente e selvaggiamente picchiato dai napoletani tornati sulla scena con i rinforzi (alcuni dei quali in procinto di essere identificati dalla Digos e indagati per rissa e lesioni). I pm ipotizzano che la pistola possa essersi sporcata del sangue che c’era a terra in qualsiasi momento e spostano anche le tracce ematiche rilevate sulle mani di De Santis alla fase successiva, perché altrimenti — ne sono convinti —, del sangue sarebbe stato rinvenuto anche sui guanti con cui ha sparato. Ecco l’altro elemento che li divide dai periti, più propensi invece a ipotizzare che il De Santis avesse con sé i guanti, ma non li indossasse.
Pronti Insomma, se non fosse morto un ragazzo di 29 anni, la tragedia di Tor di Quinto avrebbe più i contorni di un pasticciaccio brutto, anche considerando le responsabilità di Questore e Prefetto e la trattativa tra Genny ‘a Carogna e Marek Hamsik. Certamente dal 24 settembre, giorno in cui ripartirà l’incidente probatorio davanti al gip Giacomo Ebner, comincerà una lunga battaglia legale, che finirà per ruotare intorno ad una domanda: De Santis sparò per legittima difesa? E, nel caso, perché non lo raccontò subito ai pm?

La Gazzetta dello Sport

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