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F1 -Senna: l’anima fragile della Formula 1…Ayrton era di origine napoletana

Ho iniziato a vedere la formula 1 quando avevo 10 anni, oggi ne ho 48. Nella mia vita di giornalista ho avuto quattro eroi-miti: Maradona, Senna, Pino Daniele ed Enzo Gragnaniello. Tre li ho intervistati (Pino Daniele era mio grande amico ed Enzo Gragnaniello lo è ancora) il quarto no, non l’ho mai incontrato, perciò voglio dedicare un mio special.

Testo di: Carlo Ferrajuolo

Foto scelte da: Daniela Bascherini

Ho visto correre mostri sacri delle quattro  ruote come Lauda, Piquet, Mansell, Prost, Schumacher, Vettel, ma Senna era il migliore. Non ha vinto più di tutti (anche perché morto giovane), ma ha saputo rendere la Formula 1 passione, pathos  e poesia. E il suo ricordo è ancora vivo: non era solo un campione, ma il simbolo di un paese e forse della formula 1. Figlio di Milton Da Silva e di Neide Senna, la famiglia della madre di Ayrton, era di origine napoletana. Si i genitori della mamma di Ayrton, quindi i nonni, erano Italiani.La nonna toscana, e il nonno di Napoli. Ayrton aveva origini napoletane, ma non ha mai voluto far sapere troppo per paura di essere troppo adorato dai napoletani come era successo con Maradona.

Nato in una famiglia benestante, Senna ebbe la possibilità di avvicinarsi precocemente al mondo dell’automobilismo, cominciando nel 1973 a gareggiare nei kart all’età di tredici anni con un Parilla 100 cm³ a Interlagos grazie al primo istruttore Lucio Pascual (detto Tsche), vincendo all’esordio e conquistando nello stesso anno il Campionato Junior[6]. Nel 1977 e nel 1978 vince il Campionato Sudamericano di categoria e dal 1978 per quattro volte consecutive quello brasiliano. Velocissimo in pista, mistico fuori. Precisissimo in gara e in qualifica, impenetrabile quando gli passava la voglia di aprirsi al mondo. Unico. Maniacale. Magico. Affascinante. Complicato. Talentuosissimo.

Il pilota del cuore, prima che dei numeri. Anche se nessuno è stato veloce come lui sul giro secco o sotto la pioggia e senza ignorare il fatto che i tre titoli mondiali si sarebbero moltiplicati se la sua corsa non si fosse fermata a Imola il primo maggio 1994. Alcuni giornalisti, che lo hanno seguito, mi hanno raccontato che i suoi occhi non erano allegri fino in fondo, neppure quando girava per i box mano nella mano con la fidanzata di turno, ragazze che non passavano inosservate, da Xuxa a Adriane, fino al lungo flirt con la mitica Carol Alt. C’era sempre un goccio di malinconia nel suo sguardo profondo. Ma quando cominciava a parlare in italiano, inglese o portoghese che fosse, sapeva conquistare l’attenzione di chiunque. Per un giornalista era pericolosissimo perdere qualcuna delle sue dichiarazioni perché si rischiava di prendere “un buco” grosso come una casa. Ayrton non era mai banale.

Nove volte su dieci ti regalava una frase da titolo. Perché anche senza parlare di Dio o della Bibbia che teneva nella sua ventiquattrore, aveva sempre argomenti da prima pagina. << Mi ferisce che si dica che credo di essere imbattibile a causa della mia fede in Dio. Ciò che voglio dire è che Dio mi dà la forza e inoltre che la vita è un dono che Dio ci ha dato e noi siamo obbligati a mantenerlo con cura>>.Il rapporto profondo di Ayrton Senna con la religione aveva radici lontane derivanti dalla sua famiglia, in particolar modo dall’educazione ricevuta dalla madre. Nella sua valigetta personale Senna portava con sé la Bibbia e prima di ogni partenza ne leggeva un passo. In una intervista, dichiarò di aver visto Dio accanto a lui, sullo schieramento di partenza del Gran Premio del Giappone del 1988. Quando sentiva di poter aver fiducia in te e ti permetteva di sederti al suo tavolo si apriva e ti apriva il cuore. Parlava di tutto.

Delle corse che erano la sua vita e la sua gioia; della scrupolosità che metteva nella preparazione, anche fisica; dei viaggi che lo portavano a nascondersi nel suo paradiso privato ad Angra dos Reis; dell’amore che aveva incontrato spesso sulla sua strada; della religione che gli riempiva l’anima; dell’amicizia di cui non poteva fare a meno; della famiglia che era il suo porto sicuro; della mamma a cui aveva rubato il cognome per correre; del papà che spesso lo seguiva in Europa ai Gran premi e tanto aveva investito per farlo correre; degli scherzi che amava fare e spesso doveva subire, soprattutto da Berger; delle sue antipatie verso chi lo stuzzicava come Piquet, Prost o Balestre; ma non dell’odio perché chi ha nella Bibbia la sua lettura preferita non può odiare davvero. Sì Prost, il professor Alain, bacchettato da Senna diverse volte in 10 anni di formula1. Senna e Prost. Ayrton e Alain. Una rivalità che ha segnato la carriera di entrambi, fino ai fuochi d’artificio che vi furono quando si trovarono compagni di squadra, alla McLaren.Ma sarebbe ingiusto verso Ayrton, e forse anche nei confronti dei risultati del Professore, che ha ottenuto ben più di quanto gli consentisse il talento, metterli a confronto.

Tra di loro passava la stessa differenza che nel calcio intercorreva tra Michel Platini e Diego Armando Maradona: uno era ordinato, capace, anche elegante. L’altro aveva un talento divino, la palla sembrava una sua appendice, rendeva ogni tocco una poesia. Ecco, Alain guidava, Ayrton invece volava su quelle monoposto. Prost disegnava le curve col compasso, Ayrton ne inventava di nuove.Si sono odiati i due. Si sono tolti un mondiale l’uno, con manovre che fanno sembrare il caso Rossi-Lorenzo-Marquez dispute tra bimbi capricciosi. Si sono fatti la guerra. Fino a Imola.Il brasiliano era atterrito dalla morte di Ratzenberg del sabato, l’ultimo nelle qualifiche, in tutte le gare del 1993, seguita al decollo di un giovane Barrichello con la Jordan, incredibilmente illeso. Aveva una premonizione. Era morto l’ultimo e lui, il primo, il migliore, quel giovane uomo baciato da un talento unico si era messo una bandiera austriaca nell’abitacolo per sventolarla in caso di trionfo. Ma per la prima volta, poco prima della partenza, mise il casco sulla monoposto, appoggiando la nuca proprio sul punto che poi avrebbe visto uscire il braccio meccanico che lo avrebbe ucciso.

Era agitato, malinconico. Distratto, nonostante la 65ima pole position e forse la possibilità di cambiare verso a una stagione che lo aveva visto iniziare favoritissimo, per vedersi superato dal giovane Schumacher. La Williams, che lo aveva battuto negli ultimi anni grazie a un’elettronica infallibile, era un cavallo imbizzarrito senza l’aiuto di quest’ultima. Si era rabbuiato Ayrton: non la solita malinconia che lo rendeva sexy per le donne e un fratello sensibile per gli uomini. Quello sguardo che gli era valso l’affetto di un paese intero, il Brasile, che lo trattava come un figlio. No, si era spento qualcosa in lui. Forse non trovava più dentro di sé il motivo per rischiare la vita, lui che da sempre aveva lottato per la sicurezza. Ed era quello che meno ne aveva bisogno: volava sul bagnato, come sa quel Prost che a Montecarlo, nel Gp del Principato di Monaco, mentre quel ragazzo di Santana, distretto a nord di San Paolo, stava dando spettacolo, fece fermare la gara. Per motivi di sicurezza, appunto, diceva il francese. Per impedire che lo battesse con la piccola Toleman, in verità. Il primo anno di un conflitto che segnò la Formula 1 degli anni ’80. Ma a Imola, appunto, Alain era fuori da giochi e commentava. Ayrton, senza saperlo (o forse sì), era all’ultima gara. E per un canale francese, il paulista si lasciò andare a un messaggio affettuoso “un saluto speciale al mio caro, il nostro caro amico Alain Prost. Ci manchi molto”. Il rivale, il nemico. Il compagno. Senza il suo opposto, Senna si sentiva perso. Non era la sua Formula 1, quella degli anni ’90, drogata da regole complicate e dalla meccanica che soffocava il pilota e il suo valore. Un grande campione si misura sul valore dei nemici e lui aveva perso i suoi.Ma Ayrton a noi non piace ricordarlo con la testa che si reclina sulla spalla. Senza vita. In quell’incidente insensato e atroce, in quei metri in cui gli chiedevamo di frenare. Ma lui non poteva: aveva chiesto una modifica al piantone dello sterzo per rendere più comodo l’abitacolo. I meccanici della Williams lo fecero, saldandolo male nella notte tra sabato e domenica.

Saltò, mentre teneva testa al giovane Schumacher. E finì contro la sua testa, dentro. Il corpo, illeso. Neanche una frattura. Un paio di lievi contusioni. Quando arrivò in ospedale, in elicottero, “sembrava dormisse”, diranno in molti. E la beffa era che lui, quel giorno, non voleva correre.Ecco, a noi piace ricordarlo quando voleva correre. Sempre, al massimo, cercando l’impossibile. Come quel mitico Interlagos – raccontato meravigliosamente dal film Senna del premio Oscar Asif Kapadia – che lo consegnò alla leggenda. Era il 24 marzo del 1991, il pilota più grande, quello che ha vinto e fatto giri veloci come solo Fangio e Ascari (in proporzione ai gp disputati), incredibilmente non aveva mai trionfato in casa. Solo un secondo posto ai tempi della Lotus.Sta per vincere il suo terzo mondiale. E’ forse la sua migliore stagione. Ma la sua ossessione è vincere per il Brasile, per i brasiliani. Piove, succede di tutto. Ma al gran premio arrivano in centinaia di migliaia, una sorta di Woodstock della Formula 1. Domina, Senna. Mansell consuma la macchina cercando di tenerne il ritmo. Patrese rimane a 30-40 secondi. Berger amministra. Ma per il figlio di San Paolo, borghese e intellettuale, nulla è andato liscio su quella monoposto, nei momenti decisivi. E così, al 60° giro, salta la quarta marcia. Allarme, ma nulla di grave, basta saper usare il cambio. E lui non solo sa usarlo, ci parla. Ma nel giro di tre giri saltano tutte, tranne la sesta. E lui ha una dozzina di giri da affrontare così. Finirà disidratato, con i crampi, senza riuscire per diversi minuti a mettersi in piedi. Sul podio è provato. Alla radio, con i suoi, piange di gioia e forse di dolore, i tre mondiali non gli hanno dato quella felicità: quel bagno di folla lo rivedremo solo al suo funerale. Piangevano i brasiliani, in entrambi i casi, ma quant’erano diverse quelle lacrime. Questo era Senna, l’uomo che ha creato una fondazione benefica grande quanto una multinazionale, che salva migliaia di bambini all’anno. L’uomo che ha avuto storie d’amore con le donne più desiderate. L’uomo che se n’è andato prima di guidare la Ferrari: si sono sempre corteggiati senza fidanzarsi mai. Non era uomo da legami, se non con la madre, di cui prese il cognome (più originale del Da Silva paterno) e con la sorella che ancora ora ne difende la memoria ed a capo della fondazione.Senna era il migliore. Oltre i numeri. Oltre le vittorie. Oltre i campionati del mondo. Con Ayrton i motori non facevano rumore. Suonavano. Le gomme non si consumavano, disegnavano traiettorie. E il volante era un’appendice, come per il Pibe la palla. Nessuno ascoltava e capiva le monoposto come lui. Ne sapeva più dei meccanici. Soprattutto quelli della Williams. Purtroppo.Sulla sua tomba, a San Paolo del Brasile, è scolpita una citazione dalla Lettera dell’apostolo Paolo ai Romani 8,39: «Nada pode me separar do amor de Deus», in italiano Niente mi può separare dall’amore di Dio. Lucio Dalla ha inciso nel 1996 la canzone Ayrton, scritta da Paolo Montevecchi.

Carlo Ferrajuolo

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