Le lacrime di Iniesta e l’arte di saper smettere
ROMA – Smettere non è un verbo, sono due mani che ti stringono il collo. Sono le lacrime di Andres Iniesta che sa di continuare (in Cina con un compenso milionario che utilizzerà per perfezionare e rendere più popolare la sua azienda vinicola, la “Bodega Iniesta”) eppure non può fare a meno di piangere perché un pezzo della sua vita finisce lì, davanti a un pubblico più commosso di lui, fra cui tanti compagni di squadra che non sanno dove guardare o dove andare a nascondere quelle strane goccioline che fuoriescono dagli occhi. E quindi Iniesta smette anche se non smette. Smette di essere quell’Iniesta meraviglioso che abbiamo conosciuto e amato. Di tutte le magie il “mago” questa non l’ha saputa fare: restare eterno. Chi smette fa penare gli altri. Più sono forti e più i legami fanno rumore, quando si spezzano. Quando ha smesso Totti, i tifosi romanisti non sono neppure riusciti a farsi un’idea, esattamente come lui, di come sarebbe stato il futuro. E ancora non l’hanno ben capito. L’atletica ancora piange l’addio di Bolt, così come il basket vorrebbe riavere per sempre Kobe Bryant. Chi fa sport lo sa che prima o poi arriva il momento di usare quel verbo maledetto ma per certi versi anche attraente. Dietro c’è una valanga. E anche questo chi fa sport lo sa. Dubbi, problemi, paure. La curiosità del dopo è sempre di due o tre spanne più corta dell’ansia, dell’horror vacui.Le lacrime di Iniesta per l’addio al Barcellona dopo 22 anniMa chi smette? Tutti. Al mondo ci sono più persone che hanno smesso di quante possiamo contarne ancora affiliate a qualche federazione, tra i professionisti o gli amatori. La morte agonistica vuol dire accettare un’altra vita in cui vigono altre regole di cui per anni non abbiamo voluto sapere nulla, ce le mettevano sotto il naso e noi, puntualmente, dirigevamo lo sguardo da un’altra parte. Smettono tutti prima o poi. Smette chi percepisce gli anni sotto forma di artrosi, chi è giovane ma non ha voglia di faticare, smettono i ragazzi ai quali un cattivo tenente/allenatore ha insegnato a detestare lo sport caricandoli di compiti e di esercizi in età precoce cancellando la loro giovinezza, raccontando e spiegando loro soltanto la parte sudata dell’attività sportiva, e mai quella emozionale, dove si corre, si nuota, si lancia e si gioca in nome della leggerezza e del divertimento. Smette chi comincia a vedere quella nebbiolina che basta a sporcargli il panorama: lascia prima del limite. Smette chi al posto della nebbiolina vede una coltre: decide troppo tardi, avrebbe dovuto pensarci prima. Smette chi era convinto che avrebbe fatto meglio a fermarsi molto tempo prima e chi invece sceglie la strada opposta, lasciando quando è ancora in grado di offrire tanto (è il caso di Iniesta).
Ci sono grandi allenatori di calcio che hanno avuto carriere da calciatori minime, come Sacchi o Mourinho, i quali si presume avevano la forza e la lucidità per rendersi contro che non era quella la strada giusta. Lo “special one” smise a 24 anni. La luce era altrove, lo “special” non si sarebbe mai acceso se avesse continuare a giocare a pallone. Ma il più delle volte il confine tra giusto e sbagliato, tra tanto e poco, o fra tanto e nulla, è quasi invisibile. E’ quasi un’altra professione, l’arte di smettere. E le ragioni che la nutrono sono infinite e nessuna apparentemente accettabile agli occhi del praticante, al cuore che pompa. Smette chi si innamora di un uomo o di una donna, smette chi non si è mai innamorato e alla lunga ha coltivato un giardino bello a vedersi ma in realtà congelato, in cui i muscoli si strappano più facilmente e i tendini urlano. Smette chi non riesce a sfondare dopo anni di speranze, smette chi resta schiacciato da una delusione, chi è costretto a cambiare paese, città, smette chi si è operato, smette chi non ha avuto l’intuizione che forse era meglio operarsi e alla fine il corpo gli ha presentato il conto, smettono i grandi atleti e le piccole anime che non hanno un nome, smetti perché nel frattempo ti sei costruito una famiglia, smette chi una famiglia non ce l’ha e sente il vuoto nella propria esistenza.
Chi compete è l’atleta, chi compete è il campione, chi smette è sempre l’uomo. Dicono sia più facile diventare campioni che cessare di esserlo. Smettono i calciatori quando si accorgono di aver perduto le motivazioni e a quel punto non bastano i soldi a compensare, smettono gli entusiasti perché hanno finito la passione, smettono le indoli malinconiche perché nel corso degli anni si sono immalinconite ancora di più, smette l’amatore stanco di rincorrere le palline dei compagni di circolo più giovani di lui, smette il fratello minore perché il maggiore lo ha sempre oscurato. Ma quando arriva il segnale? Quante volte arriva questo segnale? Quante volte abbiamo fatto finta di niente? Come si smette? “Smettere è un’esperienza esistenziale che può arrivare in qualunque momento”, spiega Alberto Cei, psicologo dello sport, “c’è chi smette e non può star comunque fermo anche in età avanzata e questa è una conquista recente perché sappiamo bene tutti che fino a 50 anni fa l’attività agonistica oltre i 35 anni non esisteva”.
Nello smettere entra in campo l’uomo: “L’approccio umanistico è importante, l’atleta-uguale-prestazione come concetto non basta ma è quello che pensano un po’ tutti, c’è un 50% nascosto dietro l’atleta che si chiama persona, nell’arte e negli altri campi è accettato ma per l’atleta, soprattutto di alto livello, prevale una visione meccanicistica che non tiene conto dell’essere umano, del valore, nel senso più alto del termine, che questo lavoro, il lavoro dell’atleta, ha per gli uomini che diventano atleti. Sono esperienze totalizzanti, a volte drammatiche, estreme. E lasciare è spesso fonte di grande disagio”. Va aggiunto quell’elemento di deificazione del personaggio sportivo: “Le debolezze dell’atleta, prendiamo la testata di Zidane, o il farsi le scarpe, non sono previste, è come se l’atleta fosse un dio, esattamente, cioè meno umano degli altri. Un passaggio così importante, come lo smettere o di cambiare strada in modo radicale come ha fatto Iniesta, svela l’aspetto umano, diventa cruciale”. Ma quando si dovrebbe lasciare?: “I segnali della “fine”, diciamo così, li sentono tutti. Smettere è una grande fonte d’angoscia, anche fuori dallo sport. C’è chi resta in corsa pensando con terrore al domani, cose tipo “oddio, cosa farò dopo?”. Per altri è più facile accettare di scendere di mezzo secondo sui 100 come ha fatto Kim Collins o giocare a calcio da fermo perché è qualcosa di conosciuto. Cambia l’intensità emotiva. Ecco perché il passaggio diventa atroce. E’ peggio temere di non avere più intensità emotiva che efficienza muscolare. Il vero dramma, infatti, a qualunque livello, è la scomparsa dell’adrenalina e di ciò che la produce. Viene a mancare anche la competitività che vuol dire anche vivere in ambiti eccezionali, il senso del gruppo. Ma smettere è anche un modo di andare avanti nella vita”.
E quando i segnali sono più labili e sfumati?: “Si può continuare a fare tutto”, prosegue Cei, “non è necessario per forza lasciare, la dimensione esistenziale importante è che nel tempo un’attività sportiva deve diventare un conoscere meglio se stessi, senza farsi la guerra. I fisiologi si chiedono: ma perché tutti gli animali invecchiando dormono sempre di più? L’uomo va un po’ alla rovescia. Noi continuiamo a muoverci, abbiamo delle aspirazioni. Bisogna rendere complementari la motivazione e l’adeguamento degli sforzi al tempo che passa”. Ma è meglio finire al top o con un lungo tramonto? “Meglio finire al top”. Come Platini e Borg? “Se non c’è la comprensione del tempo fisico e passione rischiano di collidere, in quel caso continuare si può trasformare in un suicidio agonistico e psicologico, finisci per diventare un perdente, perennemente insoddisfatto. Non vince chi vince, ma vince chi si adatta, che poi è un modo di rispettare le regole della biologia”.
Fonte: Repubblica.it