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“Quella giacca di renna”: e Van Basten disse basta

La giacchetta di renna pareva forse esagerata per una serata di metà agosto, ma in quel momento fu una delle ultime cose a cui San Siro fece caso. Entrò nel mito più tardi, quando era già stata riposta nel guardaroba, a furia di rivedere le immagini per cercare di metabolizzare, catturare ogni dettaglio per convincersi che fosse successo davvero: Marco van Basten aveva salutato per sempre i tifosi del Milan. Jeans, camicia rosa, giacca di renna: scende sul prato così, e lo stadio si alza in piedi per lui. L’abbigliamento non mente: ha detto basta.

Il giorno prima, il 17 agosto 1995, aveva dato l’addio al calcio con una conferenza stampa appositamente organizzata nella sede del Milan, in via Turati. Secco come uno dei suoi diagonali all’angolino, non ci aveva girato troppo intorno. “La notizia che devo darvi è corta. Semplicemente ho deciso di smettere di fare il calciatore. Grazie a tutti quanti”. Zero ghirigori, dritto al punto come quando vedeva la porta. In campo come nella vita, insegnava Nereo Rocco. Alle sue spalle, nella sala dei trofei, uno scintillio di coppe. Quando era entrato in quella stanza per la prima volta, 8 anni prima, appena arrivato dall’Ajax, ce n’erano la metà.

Nessun infortunio, un processo senza colpevoli, se non il destino che si è voluto prendere gioco di uno dei centravanti più completi ed eleganti che si siano mai visti su un campo di calcio, negandogli la perfetta funzionalità degli attrezzi del mestiere per tutto l’arco della sua carriera: maledette caviglie ballerine, indebolite da un difetto congenito della cartilagine che ha rappresentato un mistero per i medici di tutto il mondo.

Quattro interventi chirurgici, il primo quando ancora giocava in Olanda. Tre mesi di stop all’inizio del 1987 e rientro trionfale con gol decisivo nella finale che regala la Coppa delle Coppe all’Ajax. Nell’estate di quell’anno il trasferimento al Milan, gioca 5 giornate di campionato (con gol all’esordio) e poi un altro stop. Di nuovo sotto i ferri, rientrerà 6 mesi dopo con il Milan in piena lotta-scudetto con il Napoli. Gioca altre 6 partite in tutto, con due gol: il gioiellino contro l’Empoli, al rientro, ma soprattutto quello decisivo nello scontro diretto al San Paolo, in cui i rossoneri conquistano di fatto lo scudetto imponendosi per 3-2.

Nelle stagioni successive Van Basten convive con il dolore, e viene solo da chiedersi cosa sarebbe stato se lo avessimo avuto al 100%: porta il Milan in cima al mondo, e mentre la sala coppe in via Turati si riempie, lui a casa colleziona Palloni d’oro (1988, 1989, 1992). Il giorno dopo la consegna del terzo, decide di farsi operare per la terza volta, a St Moritz. “Pulizia” della caviglia: si chiama così, significa altri due o tre mesi fermo che tra un intoppo e l’altro diventano più di 4. Da quel momento in poi giocherà ancora 4 partite: contro l’Udinese, subentrando dalla panchina, l’Ancona (con gol a Nista, lo stesso portiere che aveva battuto al suo esordio in A nel 1987, contro il Pisa), la Roma. Poi Capello decide di tenerlo a riposo fino al giorno della finale di Coppa dei Campioni contro l’Olympique Marsiglia, quella che verrà decisa dal gol di Bolì. La sera del 26 maggio 1993 Van Basten sa benissimo di non essere al meglio ma stringe i denti, resiste fino a 5’ dalla fine, poi lascia il campo. Ancora non lo sa, ma ha giocato la sua ultima partita di calcio.

Nel giugno del 1993, il quarto intervento: seguiranno due anni trascorsi nel tentativo di tornare un giocatore di calcio. Ormai sfiduciato, Van Basten le prova tutte: terapie mirate, agopuntura, si rivolge persino a un mago. C’è anche un tifoso che si offre come donatore di cartilagine per il suo idolo. Nessuno si rassegna all’idea di non poterlo più rivedere in campo, ma la dura realtà dei fatti è che Van Basten zoppica, la caviglia aperta e richiusa da tante, troppe mani, è ormai compromessa e più i tempi di recupero si allungano, posticipando di continuo la data del rientro, e più è chiaro che sia finita.

Nell’estate 1995 si aggrega di nuovo al gruppo per la preparazione: al Milan sono arrivati Roberto Baggio e Weah, sarebbe un tridente da sogno. Dopo una settimana di allenamento, però, il dolore è insostenibile. Vola in Belgio per un consulto dal dottor Martens, che gli illustra la situazione e gli consiglia di smettere. Van Basten ha 30 anni, l’ultima partita l’ha giocata a 28.

Il 17 agosto, nella sala delle coppe, è il più sereno di tutti: in quella stanza è l’unico ad aver accettato il suo destino, parla come se dovesse consolare lui gli altri. Rassicura la platea di giornalisti che il Milan continuerà a vincere (“Il calcio continua, con me non finisce certo il Milan. Qui ci sono Baggio, Savicevic, Weah, Maldini e Baresi, il Milan farà sempre spettacolo”), è voglioso di vedere la maglia numero 9 rossonera ancora in campo (“Ritirarla? Non merito questa cosa. Ora è giusto che la indossi Weah”), dispensa saggezza e umiltà (“Quando un giocatore smette, diventa sempre migliore. Ma io ho giocato tante brutte partite, ho sbagliato gol clamorosi. Adesso mi dite che sono stato il più grande ma la verità è che ho fatto parte di una squadra imbottita di campioni”), dà appuntamento al giorno dopo, quando a San Siro è già in programma il suo giro di campo per dare l’addio ai tifosi, durante il tradizionale Trofeo Berlusconi: “Spero di non commuovermi. Faccio brutta figura quando piango”. Niente da fare, vinceranno le lacrime.

Fonte: SkySport

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