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Gigi Riva, è morto il mito del calcio italiano

Tutti volevamo essere Gigi Riva. Era dio, era papà, era il vento. Era la bellezza di una forza pura da romanzo, era Tex Willer, era Odisseo, era il numero 11 scritto con gli “uno” stretti e lunghi come la sua schiena. Da ragazzo lo chiamavano forchettina, il viso era di una magrezza ossuta e feroce. Gli morì il padre, trapassato da un pezzo di ferro in fonderia, che Gigi aveva nove anni, la madre la portò via un cancro che Gigi ne aveva sedici. <Quando arrivai a Cagliari ero incazzato con la vita>.

La parola che spiega tutto è libertà. A Luigi Riva la tolsero bambino, in orfanotrofio, i preti. Senza preghiere niente cibo, comunque schifoso. E ringraziare sempre i benefattori per quella ciotola di brodaglia e per i cenci smessi da altri, e sfilare in processione ai funerali dei signori masticando le litanie che un bambino non sa. Gli orfani porteranno per sempre la ferita dei non amati. Gigi Riva l’aveva ben leggibile nello sguardo denso d’ombra, a volte le labbra disegnate da un artista, così come gli zigomi, il ciuffo nero e la fossetta sul mento, s’increspavano in una smorfia d’insofferenza. La difficoltà dello stare al mondo da stranieri. In tarda età, quella smorfia venne letta come il segno della depressione, e davvero Riva ne soffrì a lungo. Ma i semi del dolore vanno sempre cercati in altre zolle, nei campi dell’infanzia.

Libertà è la parola che lo spinse a restare in Sardegna, anzi a diventare sardo più dei sardi, lui che veniva dalle sponde di un lago lombardo. La voce in falsetto, cadenzata quasi da strane aritmie di timidezza, provò a narrare quell’orgoglio di stare dalla parte dei “pecorai”, come venivano chiamati i tifosi del Cagliari nelle trasferte in alta Italia. Gigi Riva è diventato il loro simbolo, alto e lucente in un cielo in tempesta dove il rombo del tuono, va da sé, era lui. Curioso che la medesima scelta di libertà e di appartenenza non poco anarchica l’avesse fatta, dopo il lombardo Riva, anche il ligure De André. Raccontano che quando si incontrarono la prima volta, sull’isola di luce, fu un grandioso repertorio di silenzi.
Il campione omerico è quasi superfluo raccontarlo. Come voler dire il colore di Raffaello, il cervello di Einstein. Come Gigi Riva, semplicemente, nessuno mai. Chiedi chi era Gigi Riva e ti risponderanno che un attaccante del genere non si era mai visto prima, né mai più. Il gol alla Jugoslavia nella finale dell’Europeo ’68, certo, e quel possente ricamo col sinistro in Italia-Germania 4-3 (fu il 3-2 per noi ai supplementari, la porta che spalancò la leggenda). E la rovesciata a Vicenza che girò tutto il cielo. E lo scudetto del Cagliari, unico nell’universo, la sua maglia bianca con i laccetti. E le gambe rotte in Nazionale contro Portogallo e Austria, come dimenticare. E i suoi no alla Juve con Agnelli che lo voleva pagare un miliardo. Tutto è nel suo racconto e nella nostra memoria. Non c’era bambino, nei Settanta ruggenti, che non volesse giocare a pallone come lui, che non sognasse di tuffarsi come lui di testa e volare verso un domani perfetto e felice, un orizzonte dove anche il sole fa il tifo.
Le sue corse pazze sull’auto scoperta, bordeggiando la scogliera e gli strapiombi sardi, perché la morte va accostata, va guardata nel profondo degli occhi come un destino che ci aspetta. E i silenzi enormi come la volta stellata ad agosto. E quel bene assoluto che poi arrivò, gliel’avevano rapito da bambino e restituito da uomo fatto, e Gigi Riva lo tenne nel cuore per sempre, nella parte sinistra del petto, cuore grande, cuore smisurato, cuore traditore solo per chi non sa che c’è un tempo in attesa anche dell’ultimo battito. Il memorabile servo pastore, il nostro papà immortale. “L’amore delle case/l’amore bianco vestito/io non l’ho mai saputo/e non l’ho mai tradito”.

Repubblica.it

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