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Hamsik-Napoli: lo slovacco vuole rilanciarsi e tornare al top

Quante domande: e nessuna risposta. Perché mentre si cerca Hamsik (disperatamente) si va a scorgere ovunque: nella psicologia spicciola per cercare di interpretarne l’involuzione; nel tatticismo più esasperato, per tentare di rimediare l’eventuale errore; nella vocazione rigorosa del suo talento e delle sue abitudini. E’ un viaggio alla scoperta del passato, per concedersi il futuro: e però intanto ora tocca a lui, ch’è rientrato rinfrancato dalla Nazionale e che sa di avere dentro di sé le energie – le soluzioni – per scacciar via le ombre che lo appannano.

PERCHE’. Semmai ce ne fosse uno: l’Hamsik dell’ultimo anno è lì, nudo come un re, esposto nella inaspettata macchinosità che mai s’è avvertita prima d’ora, impotente e però caparbiamente proteso e scovare il meglio d’un repertorio ch’è nelle corde ma pure nella storia personale che sa di Napoli. Già, perché gli riesca tutto così complicato è il dilemma irrisolto: e non può essere, no che non lo è, una questione squisitamente di modulo, causa che altrimenti ridurrebbe l’autorevolezza di un interprete così imponente nel primo settennato. E’ elemento marginale il sistema e l’elaborazione del codice Benitez: d’altro canto, per prosciugarlo di responsabilità, gli viene chiesto di stare alle spalle di Higuain, di andare ad ondeggiare tra le linee nella fase passiva, restringendo la costruzione del regista altrui o comunque inaridendo le prime giocate del «nemico». Ha meno obbligi di qualche stagione fa, dovrebbe anche spendere di meno, lasciando agli esterni la fatica dei maratoneti: e invece, gli succede di stare sempre un po’ troppo avanti o magari indietro, di non «sentire» il gioco, di avvertirlo in ritardo e dunque gli coglierne la magia ad effetto consumato.

L’HANDICAP. Lui ch’è stato sempre trascinante, mica soltanto con i gol, s’è inabissato nella crisetta d’identità che l’ha colpito e non l’ha più mollato, neanche a Bilbao, quando magari si poteva cogliere l’attimo e rompere quella vena di malinconia. Né dipende dai cambi: perché il rendimento spinge inevitabilmente ad interventi meritocratici da chi governa i destini d’una squadra e dunque diviene automatico, quasi fatale, che se Hamsik svanisce debba partire l’avvicendamento. Paradossale poi scomodare Freud: perché «dentro» Hamsik c’è, per ammissione e per certificazione dettata dagli eventi, la felicità di essere architrave d’un progetto e uomo-simbolo d’una squadra e d’una città che lo assiste con comprensione, lasciandogli il tempo di guardarsi perbene in se stesso. Peggio è andata a Gargano e ad Inler o anche ad Insigne e a Maggio, verso i quali il livello di tolleranza – e per svariato motivi – è stato sempre prossimo allo zero. Nessun handicap ambientale, quindi.

L’ONESTA’. Nella sua inattaccabile onestà intellettuale, Hamsik ha scoperto in epoche non sospette di essere diventato un piccolo caso: non lo ha intuito, l’ha confessato, l’ha avvertito mica sulla pelle ma nella testa aggrovigliata di cattivi pensieri. E però è ripartito, per andare a rimediare a quegli equivoci generati da troppi vuoti: la fascia di capitano è un energizzante ulteriore, non il carico di responsabilità ma l’assunzione delle stesse, quelle che spettano – e che vuol gestire – chi in passato ha rinunciato alle lusinghe del mercato, s’è sfilato dal ruolo di mister X che gli aveva riservato il Milan, s’è defilato dalla riffa estiva firmando sempre (pure su fogliettini anonimi) la propria scelta di vita. Che si chiama Napoli.

Corriere dello Sport

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